Abbiamo chiesto a due amici, il professor Matteo Bezzi e il regista Stefano Mordini, di riflettere amabilmente e in totale libertà su argomenti riconducibili al vasto tema delle nuove frontiere. Le loro diverse esperienze nell’ambito della comunicazione si prestano a nostro giudizio a essere condivise con i nostri lettori. Quello che segue è il resoconto scritto di un pomeriggio di chiacchiere.

Stefano

Matteo Bezzi

Matteo Bezzi: Il mio lavoro e buona parte dei miei interessi ruotano attorno alla lingua, al linguaggio e ho un’insana passione per l’etimologia e la semantica… quindi, prima di parlare di “nuove frontiere”, mi piacerebbe riflettere sulla natura stessa del termine, sulle sue varie accezioni e sulle diverse realtà che essa rappresenta, specialmente al giorno d’oggi. Senza dubbio il termine ha a che fare con LA fronte, ma anche con IL fronte… è qualcosa che si affaccia (la fronte indica l’intero viso, la faccia, ma anche la facciata di un edificio), che FRONTEGGIA qualcos’altro, spesso in modo minaccioso (penso a due che si sfidano o alla linea del fronte di guerra), che AFFRONTA situazioni ignote e pericolose (non diversamente da un AFFRONTO rivolto al nemico o da un atteggiamento SFRONTATO, tipico di chi non ha paura, di chi ha il coraggio di metterci la FACCIA – ovvero la fronte -), proprio come accade con chi si cimenta nell’esplorazione di nuovi territori (i pionieri, i coloni, i tracciatori di sentieri), di nuove idee (gli innovatori in campo scientifico-tecnologico, ma in fondo ogni ricercatore che crede fortemente in un progetto). Allo stesso tempo, però, il termine è in relazione anche con l’idea di CONFRONTO, che non è uno scontro FRONTALE, semmai un dialogo, un atteggiamento positivo nei CONFRONTI della diversità. Cos’è allora, oggi come ieri, una FRONTIERA? Un confine tangibile, come il limes dell’impero romano che costringe i barbari al DIETRO-FRONT o tipo gli odierni muri che respingono i migranti in un’Europa globalizzata che si dichiara senza dogane? La linea immaginaria che divide la civiltà dal mondo selvaggio, la proiezione geopolitica degli interessi di una potenza colonizzatrice che separa in modo arbitrario popolazioni per creare a tavolino nuovi stati, più o meno sovrani? La barriera naturale formata da una catena alpina che deve essere valicata con fatica? Il limite invarcabile del mondo conosciuto (le colonne d’Ercole, ma anche quello spaziale astronomico del sistema Terra) o quello, assai labile, che separa Bene e Male? Oppure, ben diversamente, una cerniera aperta al dialogo, permeabile e osmotica, formata da tanti vasi capillari complementari e intercomunicanti posti sullo stesso bordo?

Stefano Mordini

Stefano Mordini

Stefano Mordini: Queste tue considerazioni ben si addicono al mio lavoro di regista. Il concetto di frontiera, di confronto o confine immaginario rappresenta la base di partenza di ogni ricerca e sfida cinematografica. Immagina per un attimo che cosa significhi filmare una scena. Vi è un confine impercettibile tra rappresentazione e vita reale, che però diventa molto concreto in quello spazio fisico e temporale che si crea tra la macchina da presa e la scena stessa. In quello spazio – che viene chiamato “Giusta Distanza” – avviene una trasformazione semiologica e semantica in cui l’attore compie un vero e proprio superamento della frontiera. Quel delicato e potentissimo momento sancisce una trasformazione dalla quale non si potrà mai più tornare indietro, anche perché, se ci pensi, una scena filmata più volte dallo stesso punto di vista (ciak) non è mai uguale a se stessa. Assistiamo, in quel frangente, a una ripetizione di una vita immaginaria o semplicemente non reale (inteso come nostro mondo) che fa pensare alla teoria delle Stringhe: infiniti strati della stessa esistenza che si propagano in forma di onde, per altro registrabili e quindi rivedibili. C’è poi uno spazio fisico che è quello tra il Fronte della macchina da presa e quello che vi sta dietro o, se vogliamo, il “Dietro Front” cui facevi prima riferimento. Sono due momenti esistenziali completamente diversi: da un lato abbiamo coloro i quali assistono al compiersi di un atto epifanico, regista e tutto il resto della troupe, dall’altro quelli che davanti alla MdP si fanno interpreti di quell’atto. La nascita della comunicazione digitale, però, ha distrutto il quieto vivere del “cinema”: il privato portato in scena ha schiacciato, pestato, ucciso l’immaginario e la poesia a esso collegata. La lotta senza tregua per l’accesso e la gestione dei dati, anziché liberare l’umanità, l’ha resa schiava. È stato assassinato un vero e proprio archetipo della storia della drammaturgia classica: il guardiano della soglia. E il processo si è oggi esasperato con il superamento di una nuova frontiera, quella della realtà virtuale, che sta togliendo al cinema, al teatro, alla musica il proprio spazio di riferimento, il suo magico potere evocativo… Grazie ad essa, anche il pubblico rinuncia oggi al piacere e alla libertà di condivisione di un evento a fronte di una mercificazione che controlla gli istinti emozionali e li dirige verso un consumo fagocitante, ossessivo e solipsistico. Quando si è in una sala o in teatro ad assistere a una messa in scena o a un film si è spettatori. Se si compra il biglietto (non con carta di credito) nessuno saprà mai cosa hai visto. È un momento privato che può in questo modo rimane tale. Ma la cosa ancora più importante è che solo in quel preciso momento si può assistere a uno spettacolo insieme a persone che non conosci e con le quali condividi emozioni, a volte anche contrastanti. Noia, gioia, pianto? Non importa: io c’ero! Quando si vede un film in rete non si è più spettatori, ma consumatori. A seconda di ciò che abbiamo visto, il giorno dopo riceviamo mail che quasi sempre hanno a che fare con il film o con la ricerca che abbiamo effettuato. La realtà virtuale elimina il confine tra spettatore e attore, i ruoli sempre più si confondono e mistificano. Quella barriera sacrosanta di rispetto verso l’opera e quello spazio, prima citato, scompare. Siamo tutti in scena e tutti protagonisti. Non possiamo più nascondere la nostra emotività. Se penso a questa nuova frontiera, vedo più costrizione che libertà, più chiusura e solitudine che apertura a orizzonti più ampi e diversi… difficile oggi, se non dal punto di vista strettamente geopolitico, individuare nel concetto di frontiera di cui parlavi uno spiraglio di possibile libertà.

Matteo Bezzi: Come darti torto! Anche nel linguaggio e nella lingua contemporanea, specialmente dei giovani che frequento a scuola, vedo un appiattimento uniformante pauroso. La parola, quando non viene sostituita dall’immagine, dal video, dal selfie, è puramente autoreferenziale, spesso decontestualizzata, frammentata, liquefatta nel caos rapido delle chat, degli sms, di mille realtà volatili e inespressive. Ha perso, in buona parte, il suo peso poetico ed evocativo, non è più soppesata e non riflette la stratificazione della sua esistenza storica, il suo potere emotivo. Ma vorrei tornare ancora sul concetto di frontiera e cercare quello spiraglio di libertà e ottimismo che tu sembri aver perso: in matematica, ad esempio, il PUNTO DI FRONTIERA di un insieme appartiene alla chiusura dell’insieme che è formato da tutti gli altri punti che ne costituiscono la linea di contorno, ma non è un suo punto interno. Dunque, ancora una volta, è evidente come la natura della frontiera sia ambigua per definizione, una linea che demarca, che contorna, che sancisce diverse esistenze, pur non avendo una sua precisa identità, un’appartenenza e nemmeno una sostanza. Spesso è reale – come la Grande Muraglia o come i territori inesplorati del Far West – spesso è immaginaria, psichica, virtuale come un tabù da superare, come l’ignoto dei nostri pensieri, come le idee, le fantasie e i sogni umani. Insomma, un luogo-non luogo, uno spazio magico e ignoto, fluido e contradditorio, statico eppur dinamico nelle sue continue trasformazioni. Proprio come una personalità BORDER-LINE, la frontiera è pericolosa e instabile, un po’ di qua e un po’ di là, sfuggente e imprevedibile, un bordo su cui si sta perennemente in bilico, su cui si cammina rischiando come funamboli in cerca di se stessi. Fisicamente, quelli di frontiera, sono quasi sempre luoghi deludenti, terre di nessuno senza personalità, segnate da cicatrici violente, dal rifiuto, dall’odio, dall’ansia di controllo e difesa. Oppure luoghi per curiosi, esploratori, per pionieri e genii in grado di rischiare e sognare avventure in territori – geografici e mentali – ancora vergini che prevedono sempre il superamento di un limite-ostacolo (le frontiere della conoscenza, della tecnologia, della scienza, del progresso), ritenuto invalicabile. Follia e coraggio, del resto, sono i tratti principali del cosidetto “spirito di frontiera” e tutti coloro che riescono a superare quel limite, aprono al resto dell’umanità nuovi scenari, nuove opportunità, nuovi mondi da abitare e condividere. In questo senso, perciò, esisterà sempre una “nuova frontiera” da esplorare e i suoi contorni si dilatano all’infinito, così come le possibilità e le alternative meravigliose che può offrire.

Stefano Mordini: Se vogliamo parlare di border-line e frontiere oggi più che mai questa definizione si presta all’attualità. Le ultime elezioni americane hanno spazzato via i confini politici e chi ha vinto ha promesso di innalzare nuovi muri, non è importante se avverrà, ma il concetto di frontiera e di limite invalicabile è stato usato in modo demagogico da chi ha vinto. L’altro aspetto ancora più importante è che il FRONTE delle istituzioni politiche è stato spazzato via da un vero tornado. Non pensavo che avrei assistito nella mia vita a un cambiamento così radicale delle categorie politiche. Non che mi dispiaccia, ma se parliamo di nuovi orizzonti, con l’elezione di TRUMP assisteremo a nuove diversità. Poi c’è un ultimo punto. Sono cresciuto con la globalizzazione. L’ho documentato in lungo viaggio con quattro documentari nel 2001. Argentina con la crisi, Sud Africa con le Big Pharm: la gente moriva di Aids e le grandi ditte farmaceutiche non passavano le medicine se non ad un costo elevatissimo. Chi riceveva medicinali era perché si era proposto come cavia. Poi sono andato in India per il primo raccolto di cotone geneticamente modificato ad opera della Monsanto e in ultimo ho seguito le presidenziali di Lula in Brasile. L’ultimo di questi quattro viaggi rappresentava la speranza in un nuovo mondo che sapesse ricostruire confini culturali per offrire sviluppo e non sfruttamento. Non è andata così… e adesso sento dire che quei confini, abbattuti dalla globalizzazione per aiutare “lo sviluppo”, vanno ricostruiti per proteggersi. Proprio su questo punto, vorrei fare riferimento alle parole di Pier paolo Pasolini sulla differenza tra sviluppo e progresso. Lui, che di frontiere se ne intendeva, avendone superate molte, diceva: Bisogna fare una distinzione, che spero venga definitivamente letta e accettata o addirittura codificata, tra Sviluppo e Progresso. Tra le due parole c’è una differenza enorme… sono due cose non soltanto diverse, ma addirittura opposte e, per quanto riguarda questo contesto storico, addirittura inconciliabili… infatti questo sviluppo, non parlo dello sviluppo in generale, ma questo storico sviluppo, chi è lo vuole?… Lo vuole la destra economica, non parlo neanche della destra ideologica o del fascismo, no… parlo proprio della destra economica. Ed è a questo punto che io uso il potere con la P maiuscola, in un modo un po’ estetizzante e vagamente mistico, perché è veramente difficile capire oggi quale sia il potere reale e anziché chiamarlo potere con la P maiuscola chiamiamolo pure “i nuovi padroni”… è chiaro, però, che questi nuovi padroni non corrispondono più perfettamente a quelli che noi siamo stati abituati a considerare padroni… sono cambiati e questi nuovi padroni vogliono lo sviluppo… lo sviluppo, almeno qui in Italia, vuole la creazione e la produzione intensa, disperata, ansiosa di beni superflui, mentre in realtà coloro che vogliono il progresso vorrebbe la creazione e la produzione di beni necessari. Era una trasmissione RAI ed erano gli inizi degli anni ’70. Non mi sembra che da allora abbiamo fatto grandi passi in avanti per comprendere a pieno questa distinzione. Un esempio su tutti a proposito del progresso che si riduce a sviluppo: a Salt Lake City, 23 marzo 1989, Martin Fleischmann e Stanley Pons tennero una conferenza stampa annunciando la scoperta della FUSIONE FREDDA. Questa scoperta avrebbe permesso di ottenere energia a costi minimi, liberandoci definitivamente dal problema energetico. La scoperta è stata per anni osteggiata dai grandi gruppi sino a definirla una bufala. Quel brevetto tanto denigrato è stato comprato dall’industria militare americana. La fusione a freddo permette una reazione nucleare eliminando la massa. Non era una bufala e la scoperta era veramente rivoluzionaria, tanto che l’industria militare, aggiungendo l’uranio dentro un reticolo di deuterio, è riuscita ha produrre mini-bombe atomiche utilizzate nel Golfo Persico. Dunque, questo è il motivo per cui cominciano ad apparire sui terreni di guerra le mini nuke, bombe nucleari minuscole che producono un calore di migliaia di gradi, inquinando di radioattività le aree che colpiscono. Certo che – di nuove frontiere – gli americani ne hanno ridisegnate tante, anche quella del divieto nucleare!

Matteo Bezzi: Alla luce delle tue parole, vorrei allora intendere le Nuove Frontiere come luoghi simbolici, spazi mentali positivi, che incoraggiano a spingersi sempre oltre, stimolando a migliorarsi, ad accettare le sfide e a cambiare continuamente il proprio approccio e la prospettiva con cui guardiamo alle cose. L’uomo ha nel suo DNA la spinta a evolversi, a progredire… la scienza, per sua natura, ha l’obbligo di indagare, perfezionando le scoperte precedenti, così come la tecnologia deve per forza innovare, implementare e sviluppare nuovi approcci che superino lo status quo acquisito. Quest’atteggiamento dovrebbe oggi permeare ogni campo dell’azione umana, dalla politica alla cultura, dall’economia alla società civile, ma, a mio parere, sono sbagliati i termini con cui lo facciamo. La nuova frontiera, l’innovazione e il progresso non devono essere visti come una sfida a priori, una necessità imprescindibile da cui dipendono le sorti di un’azienda, una nazione o un determinato gruppo sociale; non devono costituire la linea di demarcazione tra successo e fallimento, tra Bene e Male, non sono l’agognato obiettivo cui tendere in modo totalizzante… Semmai sono il mezzo, lo strumento per crescere in modo consapevole, per sognare nuovi orizzonti, per conquistare libertà e benessere senza ansia e ostilità. Le nuove frontiere devono semplicemente rappresentare un continuo stimolo a ricercare il salto positivo e dovrebbero essere parte di un atteggiamento aperto, non verticale, ma orizzontale, ricco di sinapsi e connessioni, proprio come la rete e come il nostro sistema nervoso… Devono essere considerate come un atteggiamento mentale propositivo, un modo di pensare fuori dagli schemi – che vorrei chiamare visione innovativa – creativo e dinamico, caratterizzato dalla sperimentazione di nuovi linguaggi e dalla loro flessibile applicazione in più contesti contemporanei.

Stefano Mordini